La forma dell’immagine, l’immagine della forma

A prima vista potrebbe sembrare difficile trovare un denominatore comune tra le esperienze pittoriche di Dasti, Falmi e Tressoldi. Il primo dei tre coltiva una figurazione delicata, quasi un neonovecentismo in cui la monumentalità si dissolve per lasciare il posto all'anamnesi, alla ricomposizione di episodi del vissuto.
Gli altri due praticano un'astrazione lirica con indizi di referenzialità: Falmi secondo una modalità oceanica, attraversata da correnti poderose, che rimescolano i materiali dell'esistenza in un vortice perenne;
Tressoldi come se lasciasse decantare una soluzione i cui ingredienti si depositano a poco a poco, facendo balenare momenti e apparizioni irripetibili.
Eppure i tre artisti hanno un retroterra condiviso; ed è, credo, proprio nella modalità con cui ciascuno di loro interroga le cose e il loro fluire quotidiano. Pensando a un film famoso, Shining, e al romanzo a cui esso si ispira, darei a questo retroterra un nome preciso: “luccicanza”. Nulla di orrorifico, sia chiaro, quanto invece la prerogativa, che nel film di Kubrick e nel libro di King si incarna nella travolgente innocenza di un bambino, di “sentire” fatti e cose appartenenti a tempi e luoghi diversi, accumulandoli in una sorta di campo magnetico, che emana un'energia irresistibile.

Dasti, Falmi e Tressoldi non sono dei medium né tantomeno si atteggiano a tali, ma del loro medium, la pittura, indagano a fondo proprio le potenzialità medianiche: quelle che normalmente restano più insondabili. La loro è un'arte che entra in vibrazione col mondo, sintonizzandosi su frequenze anomale - più alte o più basse - rispetto a quelle usuali. Le figure diafane di Dasti, i caleidoscopi di Falmi, i precipitati di Tressoldi, sono epifanie di una realtà che vive sotto traccia, troppo evanescente per conquistarsi una vita del tutto corporea, troppo presente per poterla declassare a ombra o a riflesso.